STORIE DI FOIBE 4 - La Strage di Vergarolla
Per gentile
concessione dell’autrice, Dott.ssa Lucica Virginia BIANCHI, riportiamo
integralmente l’articolo “La Strage di Vergarolla”, pubblicato il 26 giugno
2014 su: I tesori alla fine dell'arcobaleno - Giornale culturale e di informazione
a cura dei volontari per la cultura di Talamona e degli studenti dell'Istituto
Comprensivo "G. Gavazzeni"
(https://giornalebibliotalamona.wordpress.com/2014/06/26/la-strage-di-vergarolla/).
Una giornata
piena di sole; una folla di adulti e di bambini che trascorrevano gioiosamente
il tempo a tuffarsi nell’azzurro del mare e a riposarsi nel verde della pineta;
una gioventù sportiva di atleti e di atlete, riuniti per partecipare alla gare
di nuoto della “Coppa Scarioni”; una giornata di festa.
E invece, alle
14.10 del 18 agosto del 1946, un boato, una colonna di fumo, decine di corpi
straziati, il sangue che arrossa il mare.
La strage di
Vergarolla, a Pola, che il 18 agosto del 1946 causò la morte di oltre settanta
persone e un centinaio di feriti, tutti civili, smembrando intere famiglie che
quel giorno avevano affollato la spiaggia per assistere alla gara natatoria
organizzata dalla «Pietas Julia», non fu un incidente ma un attentato
organizzato dall’Ozna, la polizia segreta di Tito.
Inquadramento storico.
Negli ultimi mesi
della Seconda Guerra Mondiale i territori a cavallo dell’allora confine
orientale italiano furono al centro di una disputa ad un tempo stesso nazionale
e politica, ultimo atto di un secolare conflitto fra italiani e slavi.
Il 13 settembre
1943 il Comitato Popolare di Liberazione (CPL) dell’Istria – formalmente
composto da croati e italiani della regione, ma dominato completamente dai
primi – proclamò a Pisino l’annessione della regione alla Croazia; il 25
settembre il proclama venne ribadito a Otocak dallo Zavnoh (Zemaljsko
antifašističko vijeće narodnog oslobođenja Hrvatske – Consiglio territoriale
antifascista di liberazione nazionale della Croazia). Il 30 novembre entrambi i
proclami vennero fatti propri a Jajce dall’Avnoj (Antifašističko vijeće
narodnog oslobođenja Jugoslavije – Consiglio antifascista di liberazione
popolare della Jugoslavia). Parallelamente, ad Aidussina un’assemblea popolare
slovena proclamò l’annessione del Litorale sloveno (intendendo con questo
termine in linea generale una parte dell’antico Litorale austriaco, comprendente
Gorizia, la costa fino a Grado, Trieste e l’Istria nord-occidentale).
1. Mappa di Pola.
La spiaggia di Vergarolla è indicata dalla freccia
Al termine delle
ostilità, i territori in questione furono l’oggetto di una delle maggiori
contese politico/diplomatiche del dopoguerra. Inizialmente occupati quasi per
interno dall’Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia, il 9 giugno 1945
vennero divisi in due zone – A e B – separate da un confine chiamato Linea
Morgan. All’interno della zona A l’amministrazione militare sarebbe dipesa
dalle forze angloamericane, mentre le forze armate jugoslave avrebbero
amministrato militarmente la zona B.
2. I confini
orientali italiani dal 1937 ad oggi. Si nota in rosso la Linea Morgan, che
divise la regione in Zona A e Zona B in attesa delle decisioni delle trattative
di pace
La città di Pola
venne inclusa nella zona A, divenendo una sorta di enclave circondata dal
territorio della zona B. Al tempo era la maggiore città istriana a maggioranza
italiana, in larga parte contraria all’annessione alla Jugoslavia.
Questo stato
delle cose – secondo gli accordi fra gli angloamericani e gli jugoslavi –
sarebbe stato modificato in seguito alle trattative di pace.
Ciò creò di fatto
una situazione del tutto particolare, essendo garantita a Pola – a differenza
del resto dell’Istria – la libertà di espressione dei propri sentimenti
nazionali, la pubblicazione di stampa non controllata dal Partito Comunista
Jugoslavo e perfino una certa libertà di organizzazione di manifestazioni
politiche pubbliche, sempre sotto il controllo delle forze militari
angloamericane.
Il Fatto.
Il 18 agosto
1946, sulla spiaggia di Vergarolla, si sarebbero dovute tenere le tradizionali
gare natatorie per la Coppa Scarioni, organizzate dalla società dei canottieri
“Pietas Julia“. La manifestazione aveva l’intento dichiarato di mantenere una
parvenza di connessione col resto dell’Italia, e il quotidiano cittadino
“L’Arena di Pola” reclamizzò l’evento come una sorta di manifestazione di
italianità.
3. La sede della
“Pietas Julia”
La spiaggia era
gremita di bagnanti, tra i quali molti bambini. Ai bordi dell’arenile erano
state accatastate – secondo la versione più accreditata – ventotto mine antisbarco
– per un totale di circa nove tonnellate di esplosivo – ritenute inerti in
seguito all’asportazione dei detonatori. Alle 14,15 l’esplosione di queste mine
uccise diverse decine di persone. Alcune rimasero schiacciate dal crollo
dell’edificio della “Pietas Julia”.
Il boato si udì
in tutta la città e da chilometri di distanza si vide un’enorme nuvola di fumo.
I soccorsi furono complessi e caotici, anche per il fatto che alcune persone
furono letteralmente “polverizzate”. Questa è una delle cause per cui non si
riuscì a definire l’esatto numero delle vittime, tuttora controverso.
Sulla sabbia
giacevano da mesi residuati bellici che però erano stati disinnescati e più
volte controllati dagli artificieri inviati dalle autorità anglo-americane:
«Ormai facevano parte del paesaggio, ci stendevamo sopra i vestiti o mettevamo
la merenda al fresco sotto la loro ombra», testimoniano oggi i sopravvissuti.
Eppure qualcuno
aveva riattivato quegli ordigni per farli esplodere esattamente quel giorno.
Oggi possiamo scriverlo
senza paura di essere smentiti dai negazionisti, che per decenni hanno parlato
di “incidente”, perfino di autocombustione: a 70 anni dalla strage, due studi
in contemporanea sono stati commissionati a storici super partes dal Libero
Comune di Pola in Esilio (LCPE, l’associazione che raccoglie tutti gli esuli da
Pola) e dal Circolo Istria di Trieste, e le conclusioni cui i storici sono
addivenuti, pur divergendo su alcuni aspetti, concordano su un punto
inconfutabile: fu strage volontaria.
Se già qualche
anno fa dagli archivi di Londra erano trapelati i primi indizi di un attentato
volontario, tali elementi non erano ancora sufficienti. Così, William Klinger,
massimo studioso italiano di Tito, si è recato negli archivi di Belgrado, mentre
un altro giovane storico, Gaetano Dato, ha consultato quelli di Zagabria,
Londra, Washington e Roma. Ciò che emerge chiaramente da entrambi gli studi è
che per capire cosa avvenne su quella spiaggia bisogna guardare agli scenari
mondiali: Vergarolla è il crocevia della storia moderna post bellica, la
palestra in cui nasce la guerra fredda. Klinger ha il merito di inserire la
strage nella più generale politica aggressiva jugoslava contro l’Italia
sconfitta ma anche contro i suoi stessi alleati anglo-americani. Già all’indomani
della strage partirono due inchieste, una della corte militare e l’altra della
polizia civile alleate, non a caso intitolate “Sabotage in Pola”, cioè
nettamente orientate a negare l’incidente fortuito. Klinger non prova la
responsabilità diretta della Ozna (negli archivi di Belgrado non ci sono i
dispacci dell’epoca, l’ordine tassativo era di distruggere all’istante
qualsiasi istruzione ricevuta), ma racconta il contesto, la spietatezza della
polizia di Tito, che controllava buona parte del PCI italiano e soprattutto in
quel 1946 stava alzando il tasso di violenza in un crescendo di azioni, tant’è
che sia gli americani che gli inglesi in documenti scritti lamentano col
governo jugoslavo “le attività terroristiche e criminali”. Inoltre sempre
Klinger nota come all’epoca la stampa jugoslava desse conto di ogni minimo
avvenimento, eppure non dedicò una sola riga a una strage terrificante: un
silenzio quantomeno sospetto.
Gaetano Dato
spiega nei dettagli le dinamiche dell’esplosione: “Scoppiarono una quindicina
di bombe antisommergibile tedesche e testate di siluro che erano state
disinnescate, ma che con l’ausilio di detonatori a tempo furono riattivate”.
Dato avverte però che nella sua ricerca sceglie di “mettere da parte le
memorie” dei testimoni, perché teme che “involontariamente selezionino una
parte di verità, cancellando o modificandone altre”, ma questo rischia a volte
di essere il punto debole del suo lavoro di storico, che lascia aperte tutte le
ipotesi: “Se devo dire la mia personale opinione – ci dice – fu una strage
jugoslava, ma non posso tralasciare altre piste: quella italiana, con gruppi
monarchici o fascisti che stavano organizzando la resistenza contro Tito, e
quella di anticomunisti jugoslavi”. Ma di entrambe, ammette, non ci sono prove.
“È vero che
all’epoca c’erano ancora italiani che intendevano combattere in difesa
dell’italianità, ma Vergarolla certo non aizzò i polesi a sollevarsi, anzi, ne
fiaccò per sempre ogni istanza”. Dunque, per comprendere i mandanti occorre
vedere i risultati, e questi furono la rinuncia a combattere per Pola italiana,
con la fine di ogni manifestazione da quel giorno in poi, e mesi dopo la
partenza in massa con l’esodo, ormai visto come unica salvezza. Ed entrambi i
“cui prodest?” portano alla Jugoslavia.
D’altra parte
un’escalation di azioni precedenti hanno sbocco naturale proprio nei fatti di
Vergarolla: nel maggio del ‘45, già in tempo di pace, la nave “Campanella”
carica di 350 prigionieri italiani da internare nei campi di concentramento
titini cola a picco contro una mina e le guardie jugoslave mitragliano in acqua
i sopravvissuti; pochi mesi dopo a Pola esplodono altri depositi di munizioni
in centro città; nel giugno del ‘46 militanti filojugoslavi fermano il Giro
d’Italia e sparano sulla polizia civile; 9 giorni prima di Vergarolla soldati
jugoslavi assaltano con bombe a mano una manifestazione italiana a Gorizia; la
domenica prima della strage una bomba fa cilecca sulla spiaggia di Trieste
durante una gara di canottaggio: sarebbe stata un’altra carneficina… per la
quale bisognerà attendere il 18 agosto. Negli archivi di Londra un documento
attesta la “volontà espressa degli jugoslavi di boicottare qualsiasi
manifestazione italiana, anche sportiva”.
Non scordiamo che
il 17 agosto del ‘46, il giorno prima, a Parigi si era chiusa la sessione
plenaria della Conferenza di pace e stavano iniziando le commissioni per
decidere sui confini orientali d’Italia: era una data topica e i giochi non
erano ancora chiusi. “I polesi potevano ancora sperare che la città venisse
attribuita al Territorio Libero di Trieste, sogno sfumato solo un mese dopo, il
19 settembre”: le istanze di italianità erano ancora vive e i titoisti dovevano
annientarle. Milovan Gilas, il braccio destro di Tito, così scriveva nelle sue
memorie: “Fummo mandati in Istria nel ‘46 da Tito perché bisognava cacciare gli
italiani con qualsiasi mezzo. E così fu fatto”.
Sopravvissuti. “Il mare era rosso di sangue e i gabbiani
impazziti”.
Si parla solo dei
morti di quel giorno, ma quanti sopravvissuti all’esplosione morirono nei mesi
successivi? L’ospedale cittadino “Santorio Santorio” divenne il luogo
principale della raccolta dei feriti: nell’opera di assistenza medica si
distinse in particolar modo il dottor Geppino Micheletti, che nonostante avesse
perso nell’esplosione i figli Carlo e Renzo, di 9 e 6 anni, per più di 24 ore
consecutive non lasciò il suo posto di lavoro.
4. Il dottor
Geppino Micheletti. Il consiglio comunale di Pola conferì al dottor Micheletti
una medaglia di benemerenza il 28 agosto 1946, dieci giorni dopo i fatti,
mentre lo stato italiano il 2 ottobre 1947 lo onorò con la medaglia d’argento
al valore civile. Il 18 agosto 2008, nella ricorrenza del 62º anniversario
della strage di Vergarolla, nel Piazzale Rosmini di Trieste venne inaugurato un
monumento in onore di Geppino Micheletti
Le reazioni e i funerali.
Il consiglio
comunale di Pola si radunò d’urgenza e inoltrò una protesta formale al comando
supremo alleato del Mediterraneo, all’ammiraglio Ellery Stone, capo della
Commissione Alleata di Controllo a Roma, al Comando del Corpo al quale
appartenevano le truppe di stanza a Pola, al Colonnello dell’AMGVG (Allied
Military Government Venezia Giulia - Governo Militare Alleato della Venezia
Giulia) di Trieste e dell’Area Commissioner di Pola. Le autorità furono
fermamente invitate a “stabilire le responsabilità” della strage.
L'”Arena di Pola”
titolò a tutta pagina “Pola è in lutto”, e scrisse: “non è finita la guerra.
Lutti che si rinnovano, bare che si compongono in lunga fila, lamento di feriti
che riempiono ancora le corsie degli ospedali. Un martirio che poche città
hanno conosciuto!”
L’intera città
partecipò ai funerali, tanto che si dovettero organizzare due diversi cortei
funebri. Tutti gli stabilimenti, gli uffici ed i negozi rimasero chiusi in
segno di lutto. Le esequie furono celebrate dal vescovo di Parenzo e Pola
Raffaele Mario Radossi, che durante l’omelia disse: “Non scendo nell’esame
delle cause prossime che hanno determinato un simile macello; io rimetto tutto
al giudizio di Dio (…) al quale nessuno potrà sfuggire nell’applicazione
tremenda della sua inesorabile giustizia”.
I feriti furono
molte decine, fra cui anche due militari britannici, mentre il numero esatto
dei morti non venne mai accertato: alla manifestazione sportiva erano accorse
anche centinaia di persone dai villaggi limitrofi, e se circa cinquanta furono
i cadaveri riconosciuti ufficialmente, ai funerali ventun bare contenevano
corpi non identificati, oltre a quattro bare di resti non ricomponibili. Il totale
più accreditato di morti stimati è di circa ottanta, ma alcune stime arrivano
ad ipotizzarne cento.
La notizia nella stampa italiana.
Il modo di
riportare la notizia della strage di Vergarolla nella stampa italiana in
qualche modo può essere considerato un indicatore della rovente temperie
politica dell’epoca, nonché della difficoltà di recepire notizie da una zona
ancora formalmente parte del territorio italiano, ma di fatto separata da esso.
La prima
segnalazione del quotidiano del PCI l’Unità fu del 21 agosto 1946, a esequie
avvenute. Il titolo è “Gli anglo-americani responsabili della strage di Pola”,
ed in esso si dà spazio alla notizia secondo cui il vescovo di Pola avrebbe
“stigmatizzato con roventi parole le autorità angloamericane, che presidiano la
zona, chiamandole “responsabili” della tragedia per non aver rimosso le mine
dalla spiaggia, dove erano state gettate dalla marea, per non averle
disinnescate dopo averle lasciate sulla spiaggia”. La tesi del quotidiano –
nonostante i vari sospetti sull’ipotesi dell’attentato doloso – è che si sia
trattato di una disgrazia, dovuta all’incuria degli angloamericani. Il numero
delle vittime stabilito- 62.
Il giorno
successivo, l’Unità riportò un “rapporto telegrafico della Camera del Lavoro di
Pola” secondo il quale il numero delle vittime sarebbe salito a “oltre 100″, ma
la tesi è sempre quella della “sciagura dovuta ad incuria dei colpevoli”.
L’articolo segnala la “giusta indignazione della popolazione di Pola e di tutta
l’Italia”, affermando che il consiglio municipale della cittadina istriana
avrebbe votato un ordine del giorno “di protesta”.
È da notare che
il quotidiano comunista italiano in quegli stessi giorni conduceva una continua
campagna di stampa in difesa degli interessi jugoslavi nella regione, contro –
dall’altra parte – “i servi del fascismo e dell’Italia fascista” che
contrapponendosi alla Jugoslavia assieme agli Stati Uniti avevano portato
l’Europa sull’orlo di una nuova guerra.
La Nuova Stampa
di Torino diede la notizia il 20 agosto, intitolando “Sventura a Pola” e
inserendo nel sommario l’interrogativo: “Si tratta di un attentato?
L’inchiesta inglese.
Il comando
inglese istituì una commissione militare d’inchiesta, che però non riuscì a
determinare le responsabilità della strage, aumentando i dubbi su alcune
circostanze. La relazione finale raggiunse le seguenti conclusioni:
Gli ordigni erano
stati messi in stato di sicurezza, ed in seguito controllati varie volte, sia
da militari italiani, sia alleati. Un ufficiale britannico di nome Klatowsky
affermò di aver ispezionato tre volte le mine – l’ultima il 27 luglio –
concludendo che le stesse potessero essere fatte esplodere solo
intenzionalmente.
Testimoni diretti
– fra i quali uno dei militari inglesi feriti – avevano affermato che poco
prima dell’esplosione avevano udito un piccolo scoppio e visto un fumo blu
correre verso le mine.
Il comandante
della 24ma Brigata di fanteria inglese – M. D. Erskine – segnalò che le mine
non erano né recintate né sorvegliate, proprio perché ritenute inerti e non
pericolose.
Erskine espresse
nella relazione finale il parere secondo cui “Gli ordigni sono stati
deliberatamente fatti esplodere da persona o persone sconosciute” (“The
ammunition was deliberately exploded by person or persons unknown”).
“L’Arena di Pola”
ribadì varie volte l’argomento: “Stando così le cose, le mine non possono
essere scoppiate da sole senza l’intervento di alcuno”. La cittadinanza ebbe la
netta impressione che i militari alleati agissero con poca determinazione nella
ricerca dei colpevoli, ed essendosi maturata la convinzione che Pola fosse una
sorta di pedina di scambio nel gioco delle potenze vincitrici della guerra,
tutto ciò esacerbò ulteriormente gli animi.
A differenza del
resto dei territori in seguito ceduti dall’Italia alla Jugoslavia col trattato
di pace, ove l’amministrazione militare era affidata all’esercito jugoslavo, l’esodo
da Pola fu effettuato sotto la sovrintendenza delle forze alleate. La maggior
parte della popolazione andò via dalla città.
L’idea
dell’abbandono di Pola da parte della “larghissima maggioranza” dei cittadini
era maturata mesi prima della strage di Vergarolla. Le feroci contrapposizioni
fra i filoitaliani e i filojugoslavi erano condite da accuse e minacce, e la
radicalizzazione della frattura non lasciò ai perdenti “alcun margine di
accettazione della soluzione avversa”. Complessivamente, la popolazione di Pola
ritenne di trovarsi di fronte ad un’alternativa secca: o rimanere nella propria
città in balia di un potere che non offriva nessuna garanzia sul piano della
sicurezza personale, né su quello della libera espressione del proprio sentire
nazionale e politico, oppure abbandonare tutto per prendere la via dell’esilio.
5. La prima
pagina de “L’Arena di Pola” del 4 luglio 1946, col titolo “O l’Italia o
l’esilio”
Le notizie
trapelate a maggio del 1946 in merito all’orientamento delle grandi potenze
riunite a Parigi a favore della cosiddetta linea francese – che assegnava Pola
alla Jugoslavia – rappresentarono un fulmine a ciel sereno: in città si era
infatti convinti che il compromesso sarebbe stato raggiunto sulla linea
americana o sulla linea inglese, che avrebbero lasciato la città all’Italia.
Il 25 giugno, la
Camera del Lavoro proclamò uno sciopero generale di protesta che raccolse
un’adesione altissima. Il 3 luglio si costituì il “Comitato Esodo di Pola”. Il
giorno successivo “L’Arena di Pola” titolò a piena pagina: “O l’Italia o
l’esilio”. Nell’articolo principale a firma di Guido Miglia, si legge: “Il
nostro fiero popolo lavoratore, quello che pure aveva creduto nella democrazia
e s’era ribellato ad ogni forma di schiavitù, abbandonerebbe in massa la città
se essa dovesse sicuramente passare alla Jugoslavia, e troverà ospitalità e
lavoro in Italia, ove il governo darà ogni possibile aiuto a tutti questi figli
generosi che preferiscono l’esilio alla schiavitù ed alla snazionalizzazione. A
Pola rimarranno forse alcune migliaia di fanatici che, dopo alcune settimane di
occupazione jugoslava, si pentiranno atrocemente di tutto il male fatto da loro
e cercheranno allora di sfuggire alla persecuzione violenta ed all’oppressione.
E proprio perché sanno che a loro toccherà questa sorte, e per continuare ad
essere dei gerarchi della “minoranza” italiana, fanno ogni sforzo per
convincere la gente a rimanere in città; dopo averla terrorizzata con un anno
di propaganda bestiale, con deportazioni in massa di innocenti e con lancio di
uomini vivi nelle foibe, fra lo sghignazzare di alcuni ubriachi di sangue”.
Il 12 luglio, il
“Comitato Esodo di Pola” cominciò la raccolta delle dichiarazioni dei cittadini
che intendevano lasciare la città nel caso di una sua cessione alla Jugoslavia;
il 28 luglio furono diffusi i dati: su 31.700 polesani, 28.058 avevano scelto
l’esilio. Pur essendo da considerarsi queste dichiarazioni prevalentemente come
un tentativo di pressione sugli Alleati a sostegno della richiesta di
plebiscito, cionondimeno esse avevano assunto un significato più profondo:
“L’esodo si era trasformato nella maggior parte della popolazione da reazione istintiva
in fatto concreto, che acquistava via via uno spessore organizzativo e iniziava
a incidere sulla vita quotidiana degli abitanti”.
Nell’estate del
1946 l’esodo era già un’opzione molto concreta. Tuttavia, nella memoria
collettiva della popolazione la strage di Vergarolla venne ritenuta come un
punto di svolta, in cui anche gli incerti si convinsero che la permanenza in
città alla partenza degli Alleati sarebbe stata impossibile.
Lo scoppio fece
abbassare il volume alla città. A quel punto si operò lo scollamento decisivo,
inesorabile. L’impalpabile nevrosi della catastrofe vicina era già diffusa
nell’aria e fra la gente. Lì, a quel funerale, dilagò il senso
dell’ineluttabile e della sua accettazione, lì ci furono scene drammatiche,
scene di fuga da un luogo di morte. L’esodo a quel punto si fece visibile,
massiccio, collettivo. Vergarolla aveva modificato radicalmente le sorti della
città.
6. Trieste:
Monumento del 2011 alle vittime di Vergarolla
7. Il cippo di
Vergarolla, inaugurato nel 1997
Lucica Bianchi
fonti:
William Klinger,
La strage di Vergarolla, Supplemento a L’Arena di Pola n.5 del 26 maggio 2014
Gaetano Dato,
“Vergarolla 18 agosto 1946 .Gli enigmi di una strage tra conflitto mondiale e
guerra fredda, LEG, Gorizia 2014