STORIE DI FOIBE 2 - La mattanza dei Carabinieri
Per dieci anni ha
coltivato la speranza. Per dieci anni ha acceso una piccola candela sul
davanzale di una finestra, il cuore in gola, il respiro accelerato. Era un filo
sottile, il tentativo disperato di segnalare al marito la strada di casa. Quel
minuscolo punto luminoso avrebbe potuto guidarlo nelle tenebre che lo avevano
ingoiato dall'altipiano di Tarnova a Gorizia. Ernesta Stame, moglie del
carabiniere Paolo Bassani è una donna ostinata e fiduciosa. Prima di sparire,
la sera del 18 maggio 1945, durante i quaranta giorni di occupazione dei
partigiani jugoslavi, il militare era riuscito a impietosire un carceriere e
gli aveva affidato un biglietto laconico, ma rassicurante: "Ti saluto e
spero tanto di poter ritornare. Non pensare a male, io sto bene. Tanti saluti e
baci. Tuo marito Paolo". Ernesta, caparbia e fiduciosa, non "ha
pensato a male". Ha acceso la fiammella per illuminare il sentiero
dell'improbabile ritorno. Non sapeva che Paolo giaceva sul fondo della foiba di
Zavnj, a 150 metri di profondità, assieme a 17 colleghi e a tanti altri, civili
inconsapevoli, partigiani cattolici sloveni, fascisti italiani, vittime di una
puilizia etnica e politica feroce, sistematica, organizzata.
Nell' archivio
dello storico di Pordenone Marco Pirina, fondatore del "Centro studi e
ricerche storiche Silentes Loquimur", sono archiviati 5700 nomi per la
sola area di Gorizia. Il destino dei diciotto carabinieri della stazione di via
Barzellini, inghiottiti nel nulla a guerra persa e ampiamente finita è il
paradigma della sciagura collettiva. Dopo l'8 settembre 1943 erano rimasti nel
presidio, proprio di fronte al carcere, quaranta militari agli ordini del
tenente Tonarelli. Avevano ancora la scritta RR CC, Reali Carabinieri sugli
elmetti.
I tedeschi li
tollerano a fatica. Non li utilizzano per le operazioni delicate, come i
rastrellamenti di partigiani. Delegano ai militari dell'Arma la funzione
inferiore di contrastare i ladri e la borsa nera dei generi alimentari, il piccolo
traffico dei contadini che vendono in nero polli, grano, carne e verdura
sottratti al razionamento. La rarefazione di cibo si fa sentire. "Una
catenina d'oro per un chilo di sale", esemplifica Pirina.
Il 30 aprile
Gorizia è attraversata da squadracce di "cetnici", nazionalisti serbi
che razziano e sparacchiano a 360 gradi nella corsa precipitosa verso Palmanova
dove progettano di consegnarsi alle unità inglesi. Il primo maggio entra in
città il IX corpo sloveno. Cominciano le retate sistematiche. Vengono arrestate
940 persone. Di 665 non si saprà più nulla. Restano solo le memorie dei parenti
disperati e i nomi incisi sul lapidario del Parco della Rimembranza. I diciotto
carabinieri rimasti nella tenenza di via Barzellini finiscono nelle celle del
carcere. Il diciotto maggio vengono bastonati o spinti a forza a sbattere la
testa contro i muri del penitenziario e caricati su un camion. Il mezzo si
dirige lentamente verso l'altipiano. Da allora solo silenzio sulla loro sorte.
Un vuoto opprimente che si infrange solo nel 1994. Marco Pirina viene
mobilitato da Giovanni Guarini, figlio del brigadiere Pasquale, leccese della
provincia, classe 1902. Lo storico decide di aggrapparsi all'unica, esile,
memoria storica che è rimasta, il parroco di Tarnova. Il prete lo indirizza a
una Gostilna, una trattoria. Una donna di 84 anni, Elena Rjavec, suggerisce di
sentire un partigiano di Nenici, un certo Antonio Winkler, settanta anni.
L'uomo ha abitato a Gorizia per un ventennio e parla perfettamente l'italiano.
Pirina alza una cortina fumogena sul vero scopo della visita. Finge di essere
interessato alla sorte di un gruppo di dispersi sloveni. Winkler
abbocca."Ma lei non sa nulla dei carabinieri?", si stupisce.
Il bosco è fitto.
L'ex guerrigliero ha la strada scolpita nella memoria. Indica i luoghi, il
tragitto del camion, "avevano i polsi legati con filo di ferro rinserrato
con le pinze", la buca nella quale è stato sepolto un finanziere che è
crollato per terra a venti metri dalla bocca del pozzo naturale che ha ingoiato
i condannati a morte. Pirina ha annotato il racconto del partigiano, parola per
parola: "Li feci salire all'imbocco della foiba. Lì c'era la squadra che
li buttava nell'abisso. Qualcuno era vivo. Ad altri sparavano prima di
sospingerli nel vuoto. Sono quasi cinquanta anni che non vengo più in questo
posto. A quelli che uccidevano avevano dato una bottiglia di rum a testa.
Dovevano stordirsi. A noi, che avevamo fatto una faticaccia per trasportarli
fin lassù, non toccò nulla, neppure un goccio". Giovanni Guarini piange
quietamente.
Pirina, storico
per passione dopo una lunga carriera di responsabile marketing per l'Agip, ha
ricostruito un elenco incompleto. Dieci famiglie che non hanno un posto nel
quale depositare un fiore, persone accomunate a migliaia di altre alle quali è
negata perfino la normalità del ricordo. Scomparsi che suscitano ancora
imbarazzo. La foiba di Zavnj è stata recintata con una staccionata di legno.
C'è una croce che sovrasta un altare minuscolo. Su una targa è riportato un
verso ecumenico e generico di una poetessa slovena: "Viandante che passi
ascolta le grida di chi è stato gettato qui dentro". Nella vecchia caserma
di via Barzellini la targa dedicata ai carabinieri rastrellati è confinata in
un corridoio interno che immette negli uffici. Ai familiari stretti è stata
riconosciuta la pensione di guerra, quattrocentoquindicimila vecchie lire. Ai
figli le provvidenze che spettano agli orfani del conflitto. Ora si aggiungono
un distintivo e un certificato firmato da Ciampi. Clara Morassi, 78 anni,
figlia dell'ex vicesindaco di Gorizia spiega. con velata ironia, che possono
fregiarsene le famiglie degli infoibati fino alla sesta generazione. Pirina non
riesce a capacitarsi del silenzio sloveno e della disparità di trattamento
rispetto agli austriaci: "Loro hanno avuto un elenco di 5400 nomi. Noi
nulla. Io sono convintissimo del fatto che sia giusto chiudere con il passato,
riconoscendo però a tutti la dignità della memoria".
Gli scomparsi
sono diventati il centro della sua seconda vita. Gli sono costati minacce
telefoniche, "anche 5 o 6 al giorno", di italiani e sloveni, e un
cappio lasciato sulla porta di casa. Nel 2000 gli hanno sabotato l'auto. Una
mano ignota ha messo fuori uso i fili elettrici che segnalano i guasti ai freni
e ha tagliato quasi completamente la cinghia del ventilatore.
"Attenzioni" inutili.
Il 25 settembre
il suo Centro pubblicherà un nuovo libro intitolato "Guerra civile 1945
?1947 la Rivoluzione Rossa". Il filone è sempre quello degli svaniti nel
nulla: "Dopo piazzale Loreto sono sparite 50.600 persone. I corpi
ritrovati sono solo 15 mila".
Brano tratto dal
sito dell’Associazione “Lega Nazionale” Via di Donota 2, 34121 – Trieste
- www.leganazionale.it