“VEDO IL PAESAGGISTA COME UN REGISTA TRA PIÙ FIGURE PROFESSIONALI”


Così il neo-architetto paesaggista Mattia Proietti Tocca ci spiega in una breve intervista l’importanza della sua professione e la natura del progetto “Zaffiro”, grazie al quale lui ed alcuni suoi colleghi si sono recentemente classificati secondi in un’importante contest regionale.

di Margherita CIGNITTI

È ormai cosa ben nota quanto noi di FarePensiero abbiamo a cuore la valorizzazione dei talenti locali. Il profondo interesse e sostegno per i giovani sublacensi che si fanno largo nel mondo a suon di competenza, determinazione e genuinità, è il nostro marchio di fabbrica. Dunque stavolta l’occhio va a cadere sul giovane architetto paesaggista Mattia Proietti Tocca, che a poco più di un anno dal suo debutto ufficiale nel mondo del lavoro e della tipica disoccupazione post-laurea o “lotta contro i mulini a vento”, come ce la definisce lui, fa ben parlare di sé sotto molteplici aspetti. Che sia grazie a varie partecipazioni a trasmissioni televisive o radiofoniche come opinionista esperto nel suo campo (“Gulp Odeon”, “Radio Radio”, “Siamo noi”), o importanti risultati in contest regionali (secondo posto al concorso “Un giardino di Comune” indetto dal Comune di Pomezia), non fa differenza, è ormai ben noto al panorama sublacense quanto questo ragazzo sia competente e determinato. Un connubio qualitativo che ad oggi non bisogna mai sottintendere. Perciò, una volta appurato che valga la pena di conoscerlo e scambiarci due chiacchiere, se non altro per chiedergli se è corretta l’equazione “architetto paesaggista = il tizio che fa i giardini” (come ci aspettavamo c’era un semplicistico errore di calcolo), lo incontriamo.

“Ciao Mattia, prima di tutto grazie per il tuo tempo e perdona il ritardo.”

“Non c’è problema, in questi giorni non sono molto impegnato. Sarei stato comunque qui a prendermi un caffè con i miei amici.”

[Il successo sembra non averlo cambiato, il quadernino per gli appunti prontamente esibito sul tavolo lo mette un pochino in imbarazzo.]

“Benissimo, allora iniziamo subito col parlare del progetto “Zaffiro” grazie al quale sappiamo che tu e due tuoi colleghi vi siete classificati secondi ad un importante contest regionale. Dicci di più.”

“Si, dunque il progetto “Zaffiro” nasce nell’ambito del concorso “Un giardino in Comune” bandito dal comune di Pomezia in collaborazione con la Facoltà di Architettura dell’Università Sapienza. L’intento era quello di ridisegnare e ripensare una determinata zona della città, uno spazio pubblico, in chiave moderna. Hanno partecipato al contest vari gruppi di giovani architetti paesaggisti neo-laureati, io ho collaborato con Simone Antonelli e Laura Cecconi, due miei colleghi.”

“Cosa avevate pensato per questo spazio pubblico? A grandi linee e ovviamente senza scendere troppo nei tecnicismi.”

“Beh in parole povere la zona di Pomezia presa in considerazione era quella adiacente alla piazza centrale, che quindi riceve una certa formalità dagli storici Giardini Petrucci che la circondano e accoglie giornalmente i numerosi flussi di persone provenienti da svariate scuole nelle vicinanze. La sfida perciò era proprio costruire un giardino contemporaneo vicino ad un giardino storico. Siamo riusciti a conciliare le due cose e quindi a rivisitare in chiave contemporanea lo spazio. Abbiamo utilizzato elementi moderni e allo stesso tempo tradizionali come, ad esempio, la sfaccettata torre multimediale blu che si rifà alla torre civica della vicina piazza Indipendenza e che domina le nuove geometrie dello spazio. Ci sono poi a cornice del tutto gli aceri rossi “October Glory” che nel periodo di fioritura filtrano e colorano piacevolmente la luce circostante. Insomma un nuovo spazio di aggregazione e di vita sociale.”

“Non sembra affatto male. Da quanto abbiamo capito infatti, grazie al notevolissimo risultato, alcuni elementi del progetto verranno riutilizzati. Giusto?”

“Si è vero. Bisognava classificarsi primi per il completo appalto del progetto, ma la nostra torre multimediale di cui ti parlavo prima è stata molto apprezzata e probabilmente verrà inserita in qualche modo o comunque riutilizzata.”

“Ottimo. Un ottimo lavoro che, permettimi, non credo venga sempre riconosciuto o quanto meno valorizzato. Ad esempio prima di iniziare a sentir parlare di te non avevo mai conosciuto per il termine “architetto” la qualificazione “paesaggista”. Quando ho provato a chiedere poi, mi è stato spiegato con “il tizio che fa i giardini”. Non dirmi che fai davvero solo giardini.

[Sorride sommessamente, credo non sia la prima volta che qualcuno riassuma in questo modo la sua specializzazione lavorativa.]

“Grazie per averlo chiesto. No beh, ovviamente non è affatto così. Senza dubbio si tratta in qualche modo anche di questo si, ma gli spazi aperti dei quali l’architetto paesaggista si occupa possono essere sia pubblici che non e sia urbani che extra-urbani. Ovviamente il paesaggista ha bisogno quindi di una certa conoscenza dell’ecologia e dell’utilizzo degli elementi naturali, della storia e della conformazione dei territori e dei popoli che li abitano e della tutela, conservazione e restauro dei paesaggi storici. Però da qui a scambiarlo quasi per un giardiniere il passo è forse un po’ troppo lungo.”

“Immaginavo. Dunque, vista la forte disinformazione a riguardo, che ne dici di scendere un po’ più nello specifico della tua professione e sfatare qualche falso mito?”

“Certo, volentieri.”

[Palla goal servita su un piatto d’argento.]

“Allora, prima di tutto, cosa ti ha portato ad avvicinarti a questo tipo di studi? Secondo poi, ci daresti una tua breve, personale definizione di ciò che è realmente il tuo lavoro?”

“Dunque, inizio col dire che disegnare spazi urbani e pubblici è una grande responsabilità, soprattutto sotto il punto di vista pedagogico. Noi andiamo a mettere mano su spazi che verranno abitati, vissuti, nei quali le persone devono sentirsi gli attori protagonisti. Per poter fare questo è necessario tenere conto di svariati parametri ambientali ed ecologici e della stratificazione culturale e sociale del posto. Io poi ho semplicemente avuto la fortuna di trovare in tutto questo ciò che erano le mie passioni, perciò a dire il vero mi sento un privilegiato. Non capita a tutti di poter fare ciò che si ama. Detto questo, a mio avviso l’architetto paesaggista non è altro che un regista tra più figure professionali.”

“Un regista?”

“Si esattamente. In Italia la nostra è una figura un po’ svalutata ma in realtà noi siamo in grado di mediare ad esempio tra il comune architetto, il sociologo e l’ingegnere, al fine di progettare o ricostruire uno spazio tenendo conto di ogni singola esigenza che quello spazio ha. Un comune architetto in verità sarebbe abilitato a fare anche il mio lavoro -non viceversa ovviamente- ma a mio avviso non dovrebbe essere così. Come ho già detto per progettare uno spazio aperto ci vogliono svariate conoscenze specifiche che toccano anche la sociologia, e l’ecologia. Tutte cose che magari il comune architetto, non essendogli richieste a pieno, ha meno sue rispetto ad un paesaggista specializzato in questo.”

“Ad ognuno il suo. Mi sembra giusto. Quindi, se ho capito bene, tu saresti in grado di progettare anche la ricostruzione di spazi, magari gravemente traumatizzati sia nell’aspetto che nell’identità. Giusto? Se ti chiedessi ad esempio di Amatrice o, volendo uscire fuori dal panorama italiano, del sito newyorkese sul quale sorgevano le Torri Gemelle, oggi memoriale cittadino?”

“Certo che potrei, in realtà capita spesso di dover mettere mano su paesaggi o spazi traumatizzati in questo senso. Per quanto riguarda Amatrice il discorso è un pochino diverso e più delicato, semplicemente perché è diverso anche il tipo di lavoro che va fatto ora in quelle zone. Prima del restauro architettonico e della ricostruzione, lì si sta facendo tutt’ora una grande opera di messa in sicurezza dell’intera zona. Magari in un secondo momento, ancora lontano per ora, subentrerebbe la mia figura. Invece per quanto riguarda il “Ground Zero”, il sito su cui sorgevano le Torri Gemelle, tra l’equipe che lavorò al progetto del memoriale c’era ad esempio anche il celebre architetto paesaggista Peter Walker. Lì si è optato per una soluzione funzionale -era più semplice riutilizzare il vuoto lasciato dalle torri mantenendolo tale che ricostruendole- e allo stesso tempo di forte impatto emotivo: due fontane nei vuoti delle ex-fondamenta. Acqua, da sempre simbolo della vita, laddove invece c’è stata la morte.”

“Difficile anche al livello professionale intervenire in questi casi, immagino.”

“Ovviamente. È sempre complicato trovarsi a ricostruire spazi pubblici che erano pregni di energia, vita, storia, identità. Più che altro è difficile trovare il giusto approccio. Normalmente si cerca il meno invasivo possibile perché, a seguito di catastrofi di questa portata, di solito un popolo cerca di dimenticare l’accaduto il più in fretta possibile, con ogni mezzo. Ad esempio ricostruendo le cose esattamente così com’erano prima, come fu fatto a seguito della seconda guerra mondiale con interi quartieri e città. Anche per Amatrice so che Renzo Piano e la sua equipe stanno pensando per il futuro a soluzioni poco invasive e volte a mantenere intatta l’identità del luogo.”

“Chiaro, non credo serva aggiungere altro a riguardo. Come ultima cosa ti chiedo, ovviamente, dove vedi il tuo futuro lavorativo?”

“Beh, credo non in Italia. Forse in Svizzera o comunque nel nord Europa.”

[……………..]

“L’Italia purtroppo non investe molto nella mia professione, questo probabilmente perché ci si chiede sempre solo quanto costi fare un’opera di paesaggio. Dovremmo pensare invece a quanto costa non farla. Ad esempio investiamo ogni anno circa 800 milioni di euro per riparare a danni di natura idrogeologica come alluvioni e conseguenti frane, abbiamo città che al primo accenno di piogge più intense si allagano letteralmente, vogliamo parlare di Roma? Basterebbe pensare gli spazi in maniera differente, ci sono modi di progettare piazze e altri spazi pubblici che permetterebbero all’ambiente di allagarsi in maniera controllata e all’acqua di defluire poi tranquillamente. Basterebbe pensare un po’ di più alla prevenzione invece di spendere milioni poi per riparare. Basterebbe investire di più sul mio lavoro e fare opere di paesaggio. Dagli errori si impara, di solito.”

“Non avrei saputo concludere meglio e più chiaramente. Grazie per il tuo tempo Mattia.”

Lo salutiamo sorridenti (anche perché da vero gentleman qual è, ci ha offerto lui il caffè) e ce ne andiamo rimuginando un po’: forse non avremo la fortuna di averlo qui in Italia in futuro, ma forse invece si, se come ci suggerisce lui investissimo di più in lavori come il suo. Forse davvero il bicchiere a volte va visto in primis mezzo pieno. Paradossalmente, vedere dei giovani preparati, competenti e propositivi come Mattia invece di inorgoglirci ci spaventa e abbatte, perché ce li immaginiamo già fuggire all’estero. E se lo facessero proprio perché passiamo più tempo a dolerci e rammaricarci per quando fuggiranno invece di investire su di loro? Entusiasti di averlo conosciuto e di aver raccontato un po’ di lui, gli auguriamo il meglio.

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