Il falso mito del progresso illimitato



Per gentile concessione dell’autore, Leonardo VARASANO, riportiamo integralmente l’articolo “Il falso mito del progresso illimitato”, pubblicato sul Giornale dell’Umbria il 13 luglio 2015 e sul sito dell’autore il 14 luglio 2015 (www.leonardovarasano.it).

"«Cacciatore di cellulari»: questo l’appellativo, vagamente dispregiativo, con cui il preside di un istituto comprensivo del bolzanese è assurto alle cronache qualche settimana prima che terminasse l’anno scolastico. Il motivo? Appurate la fragilità dell’attenzione e le difficoltà di memorizzazione di molti studenti, il dirigente altoatesino non si è limitato a proibire l’uso dei telefonini ma si è adoperato per scovarli – con tanto di rilevatore di onde ad alta frequenza in grado di individuare cellulari accesi -, li ha sequestrati e ha sanzionato chi non rispettava il divieto.
La notizia ha lambito il circo mediatico per poi, come capita spesso, inabissarsi rapidamente. Di quell’episodio resta però la felice reazione di non poche mamme, grate al preside per essere riuscito a costringere i loro ragazzi a «stare disconnessi per un’intera mattinata». Quel «grazie», a ben vedere, riguarda tutti noi e ci aiuta a riflettere sulle «magnifiche sorti e progressive» – già oggetto dell’ironia del Leopardi -, sul diluvio tecnologico – e sugli eccessi ad esso connessi – da cui ogni giorno siamo investiti, sul falso mito del progresso illimitato.
Nell’era dell’invadenza digitale stiamo perdendo (senza rendercene conto?) pezzi significativi della nostra umanità e delle nostre capacità emotive ed intellettive. La tecnologia ha ormai colonizzato il nostro tempo e le nostre abitudini. Stravolgendole. Portando con sé indubbi vantaggi ma anche esagerazioni e non pochi danni. L’uso smodato di tante protuberanze tecnologiche tende ad atrofizzare il pensiero e i sentimenti più profondi, l’autocoscienza e l’elaborazione culturale. Basti pensare a come incidono sulla nostra quotidianità alcuni dei principali simboli della morsa tecnologica che ci attanaglia: il telefonino, le piazze virtuali e le onnipresenti slide.
Il telefonino, con relativa «digitazione isterico-maniacale» – come l’ha definita tempo fa Ernesto Galli della Loggia -, è ormai strumento e luogo di lavoro, bussola e finestra sul mondo, emblema di una vera e propria «società incessante», attiva 24 ore su 24, incline ad una assurda e sfiancante reperibilità continua, senza distinzione tra giorni feriali e giorni festivi. Con il cellulare si parla, si scrive e si fotografa. Tanta voracità genera paradossi di non poco conto: chi è abituato a produrre frasi brevi e fulminee fatica terribilmente a formulare pensieri e discorsi complessi; chi scrive tutto il giorno con una tastiera quasi non sa più tenere in mano una matita; chi fotografa in maniera compulsiva inibisce la propria partecipazione all’esperienza che cerca di documentare, memorizza di meno e cancella abitudini significative. Un esempio, fra i tanti possibili: le cartoline – vestigia delle vacanze che furono – sono ormai appannaggio di pochi eletti, collezionisti o inguaribili nostalgici. Oggi le foto si realizzano e si inviano nello spazio di un soffio. Ma non hanno lo stesso valore: le cartoline – che Curzio Malaparte spediva anche al proprio cane, Febo, inumidendole sotto l’ascella perché l’animale potesse riconoscere l’amico/padrone – comportavano un’attenta scelta, la ricerca del francobollo e dell’indirizzo, l’uscita di casa per l’invio, un impegno che anche dietro ad un semplice «saluti da…» celava un effettivo «ti penso (attentamente)».
Le piazze virtuali – altro simbolo della fiducia illimitata nella tecnologia – sono al contempo tribuna aperta a tutti, strumento di conoscenza e di vicinanza, ma anche veicolo di esibizionismo, di democrazia imbarbarita – dove chi urla di più crede di avere ragione – e surrogato di esperienze umane inesistenti, di «amicizie» che nascono e muoiono senza strette di mano. Il dibattito si trasforma spesso in sonore chiassate nell’ambito delle quali convivono, con lo stesso diritto di cittadinanza, pensieri alti (pochi) e idiozie sesquipedali (molte). L’esito di tante discussioni finisce per confluire nel mantra postmoderno più in voga: «Il popolo della rete ha detto che / ha deciso che…». Poco importa che nella maggior parte dei casi si tratti di posizioni senza fondamento o animosità populiste.
Terzo e ultimo feticcio della morsa tecnologica: le slide, supporto privilegiato di lezioni e convegni di ogni tipo. Il sostegno di schemi e grafici proiettati da un computer pare ormai indispensabile: anche autorevoli professori (?) sembrano non saperne fare a meno. Il risultato? L’insegnamento si arricchisce di effetti speciali e di cortine fumogene, l’attenzione si lega sempre più all’aspetto visivo mentre l’arte oratoria – con le sue improvvisazioni e i suoi slanci emotivi – diventa un ricordo. Di tempi passati e di personalità seducenti.
Tutto, o quasi, è dunque demandato alle immagini e alla tecnologia. Che rischia di diventare una sciagura se l’uomo non resta uomo, con la sua capacità di amare e di pensare. Con la sua coscienza e con il suo ingegno. Con la sua attitudine a governare i cambiamenti."

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