5 maggio 1945: a Trieste si moriva per l’Italia
Cosa sono stati i 40 giorni di
occupazione jugoslava di Trieste alla fine della seconda guerra mondiale (da
"Il Piccolo" 4 maggio 2005 di Corrado Belci).
Dopo la fine della seconda
guerra mondiale altro sangue venne sparso quel giorno per le vie della città.
Non fu un rigurgito di
fascismo, ma un moto di rivolta di chi voleva tornare alla patria.
Quelli del 5 maggio 1945 sono i primi morti nella battaglia per
l'appartenenza di Trieste e dell'Istria all'Italia dopo la fine delle
operazioni belliche. Come è noto, purtroppo, le vittime sono state tante, tanti
gli scomparsi, prima e dopo quei 40 giorni di occupazione jugoslava.
Ma i morti di quel giorno, ricordati dalla lapide all'angolo tra il
Corso e via Imbriani, sono stati uccisi dal piombo degli occupatori mentre
manifestavano, inermi, invocando pubblicamente l'Italia. Nient'altro. È giusto
onorarli, quei morti a sessant'anni dal loro sacrificio.
Naturalmente, la versione costruita per motivare la strage fu quella
del rischio di un «ritorno fascista». Come documenta la ricostruzione di
Roberto Spazzali, le vicende furono invece limpide e spontanee in tutto, tranne
che nella sparatoria omicida.
Come era sorto quel corteo che invocava l'Italia? L'intuizione che
ebbero gli improvvisati promotori non era affatto sbagliata, anche se muoveva
da un impulso ingenuo. Quel giorno aveva raggiunto Trieste il generale americano
Mark W. Clarke ed era andato ad alloggiare all'Hotel de la Ville, sulle rive.
L'idea era semplice e candida: è importante che questo comandante americano
capisca che Trieste è italiana. Ed era assai fondata l'intuizione che quel
generale venuto da lontano potesse non sapere niente.
La città - e il resto della Venezia Giulia - era infatti ancora
nell'incertezza dei poteri, sia militari che civili, anche se gli jugoslavi
tentavano di accelerare i tempi di un insediamento stabile. E, dunque, il
problema stava proprio nella diversità di progetti e di atteggiamenti delle due
forze armate che convergevano da est e da ovest verso Trieste, quelle jugoslave
e quelle alleate. Le prime avevano forzato la loro corsa verso occidente non
solo per sconfiggere e cacciare i tedeschi, ma per realizzare una occupazione
militare che preludesse alla annessione dei territori, Trieste e la Venezia
Giulia. Le forze armate alleate avevano ragionato, invece, in termini
prevalentemente militari, senza percepire il sottinteso espansionistico della
avanzata jugoslava. Il loro problema principale era quello di non precludersi
l'uso del porto di Trieste e il controllo delle vie di comunicazioni con
l'Austria.
Mano a mano che il tempo rivelava la «fretta» jugoslava e faceva
emergere i propositi annessionistici, Churchill percepì il risvolto
politico-territoriale del problema che si sarebbe creato, anche se lo
considerava sotto il più generale aspetto degli equilibri con l'Unione
Sovietica ed i suoi alleati ed in una valutazione certamente secondaria
rispetto al quadro del centro Europa (la Germania e Berlino).
Tuttavia, malgrado uno scambio di messaggi con Truman - restio a farsi
coinvolgere in una complicazione «balcanica» - Churchill ottenne il via libera
per recuperare il ritardo della marcia su Trieste, ma tutti sanno che al loro
arrivo i neo-zelandesi si trovarono davanti al fatto compiuto. Cominciò subito,
dunque, il braccio di ferro tra gli alleati e gli jugoslavi sull'assetto
dell'occupazione militare nella Venezia Giulia, e proprio le violente reazioni
di Tito rivelarono il proposito di una occupazione che pregiudicasse la
soluzione territoriale.
Come è noto, il primo ministro inglese non aveva escluso nemmeno l'uso
della forza per far sgomberare gli jugoslavi da Trieste, mentre assai più
prudente si era rivelata la posizione americana. L'idea di far percepire al
generale Clark il vero volto di Trieste era, pertanto, quanto mai fondata in
quei giorni. E la scintilla di un corteo scaturita dai gruppi che «curiosavano»
davanti all'Hotel de la Ville si collocava proprio all'inizio della contesa
che, pochi giorni dopo, avrebbe visto il generale Alexander usare toni
durissimi nei confronti di Tito e spostare il conflitto sul piano della
trattativa internazionale.
Ne sarebbe uscito l'accordo del 9 giugno, che con la creazione della
«linea Morgan» determinò formalmente le zone di occupazione jugoslava e alleata
della Venezia Giulia, pregiudicando in gran parte la sorte dell'Istria. Anche
quell'accordo risentì della prevalenza dei criteri militari su quelli politici
da parte alleata, o quanto meno di una valutazione piuttosto grossolana
(«questioni di giardinaggio») di quelli che venivano considerati dettagli.
Infatti, gli alleati ottennero la zona di Trieste e l'enclave di Pola (abbandonato
poi alla Conferenza della pace), ritenendo poco rilevante tutto il resto,
compresi i famosi «ancoraggi» delle cittadine costiere dell'Istria.
E, del resto, la incomprensione sul problema tra l'Italia e gli Alleati
non fu mai sciolta. Per l'Italia si trattava (e si è trattato) della perdita di
una parte del territorio nazionale, per gli Alleati era una disputa «minore».
I morti del 5 maggio di 60 anni fa si immolarono, dunque, nel tentativo
di invocare una giustizia politica internazionale in luogo degli ambigui esiti
militari. Per il loro sacrificio io credo che la Repubblica debba onorarli come
meritano i primi morti per l'Italia dopo la fine della guerra.
Brano
tratto dal sito dell’Associazione “Lega Nazionale” Via di Donota 2,
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