Il rischio del disimpegno intellettuale



Per gentile concessione dell’autore, Leonardo VARASANO, riportiamo integralmente l’articolo “Il rischio del disimpegno intellettuale”, pubblicato sul Giornale dell’Umbria il 17 novembre 2014 e sul sito dell’autore il 27 novembre 2014 (www.leonardovarasano.it).

“In due importanti capitoli del Principe – il 22esimo e il 23esimo -, Niccolò Machiavelli riflette attentamente sulla cura che ogni governante o uomo di potere dovrebbe avere nello scegliere i propri «ministri» – i sottoposti, in senso lato – e consiglieri. Quelli che stanno «d’intorno» a chi comanda, ammonisce il fiorentino, devono essere «sufficienti» – cioè capaci, preparati – e fedeli. Fatta questa premessa, viene poi proposto un modello ideale: quello del signore di Siena Pandolfo Petrucci, universalmente riconosciuto come «valentissimo uomo» per aver scelto di avvalersi della collaborazione e dei pareri di Antonio da Venafro, abile studioso, professore universitario e giudice. Il buon principe, sempre attento a fuggire gli adulatori, deve dunque poter contare su «uomini savi» e di cultura, su intellettuali che sappiano osservare, comprendere ed interpretare la realtà, che sappiano intuire e suggerire sulla base delle loro conoscenze ed esperienze.
Qui e ora, la preziosa lezione di Machiavelli – che, in prima persona, nella celebre lettera al Vettori del 10 dicembre 1513, aveva espresso il desiderio di poter mettere al servizio della famiglia dei Medici i quindici anni passati «a studio all’arte dello stato» – pare essere quotidianamente calpestata. Chi comanda – nella politica, nell’economia o in qualsiasi altro ambito – tende infatti ad attribuire un grande valore al capitale finanziario e scarso o scarsissimo valore al capitale umano, senza avere alcun riguardo nella scelta dei consiglieri. La figura dell’intellettuale, dell’uomo di lettere lungimirante, capace ed affidabile, ha ormai perso credito, spesso soppiantata da saltimbanchi e ballerine elevati al grado di autorevoli ed ascoltati suggeritori (con gli evidenti, deleteri effetti che ne conseguono).
Dov’è, si è chiesto giorni fa uno sconsolato Pier Luigi Vercesi su Sette, l’élite di pensiero che dovrebbe ispirare i governanti e parlare al grande pubblico? La risposta è desolante: non c’è alcuna schiera di uomini colti attenta alle vicende della cosa pubblica; o, se c’è, preferisce starsene in silenzio, defilata. Perché si è arrivati a questa sorta di disimpegno intellettuale? Una delle ragioni di questa assenza sta, a ben vedere, nelle continue umiliazioni e nell’incessante svilimento a cui è sottoposta la cultura – in particolar modo quella umanistica – nel nostro Paese.
Chi maneggia le idee, chi riflette, chi si piega sui libri e fa ricerche – spesso senza orari né festività, muovendosi con coraggio, il più delle volte a spese proprie, tra archivi e biblioteche in giro per il mondo – non ha pressoché alcun prestigio. Non è un caso se le facoltà umanistiche tendono a svuotarsi più di quelle scientifiche: chi si cimenta con letteratura, filosofia e simili è considerato un perditempo; i titoli di studio ancorati alla cultura classica appaiono quasi un ingombro.
Quanto ruota attorno alla cultura non gode di una seria considerazione. Pensare, leggere e scrivere sembra non avere il minimo valore, sembra, paradossalmente, non avere nessuna utilità sociale. Nell’assurda, tristissima “normalità” del nostro Paese, un giovane che presti un qualche lavoro intellettuale è spesso condannato alla gratuità, senza il minimo riconoscimento per l’opera che svolge. E anche i più esperti non se la passano molto meglio: anni di faticosi studî solo in rari casi portano onori e soddisfazioni economiche. Perfino un autore di libri di buon successo – come testimoniato da Andrea Kerbaker in un amaro pezzo apparso sulla «Domenica» del Sole-24 Ore del 2 novembre scorso – deve necessariamente fare anche dell’altro per mantenersi. E ancora: un grande traduttore come Luigi Schenoni – una vita intera dedicata a Joyce, nel tentativo di riprodurre in italiano l’universo linguistico della complessa opera Finnegans Wake: un’impresa che ha dell’eroico, tentata solo in pochi Paesi – ha lasciato in eredità un lavoro decisamente prezioso, morendo in una sostanziale indifferenza.

Di questo passo ci saranno, per dirla con Machiavelli, sempre meno «uomini savi» (e sempre più saltimbanchi e ballerine) a consigliare i «principi». Con grande e duraturo danno per la collettività. Tra le tante urgenze italiane c’è dunque anche quella di ridare dignità alla cultura e agli intellettuali. Nella consapevolezza che, come scriveva Cesare Beccaria nel suo Dei delitti e delle pene, l’uomo illuminato – l’uomo dedito agli studî, «avvezzo a vedere la verità e a non temerla», «assuefatto a contemplare l’umanità dai punti di vista più elevati» – è il bene più prezioso per una nazione e per chi la governa.”

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