L'Invidia




Per gentile concessione dell’autore, Leonardo VARASANO, riportiamo integralmente l’articolo “I danni dell’invidia negli affetti e nella politica”, pubblicato sul Giornale dell’Umbria il 26 novembre 2012 e sul sito dell’autore il 30 novembre 2012 (www.leonardovarasano.it).
“Numquam felix eris, dum te torquebit felicior”, “Giammai sarai felice finché ti tormenterai perché un altro è più felice”: così scrive Lucio Anneo Seneca nel De ira (III, 30, 3) per ammonire l’uomo a guardarsi dal pernicioso e vacuo sentimento dell’invidia. Di avvertimenti analoghi a fuggire dal rammarico e dal risentimento per il benessere e la prosperità altrui, ne è però già ricca la Bibbia. Dalla sanguinosa vicenda di Caino e Abele – con il primo che ha in sé il seme dell’invidia fin dalla radice del nome -, a quella di Giuseppe venduto dai fratelli come schiavo, dal comandamento che esorta a non desiderare “cosa alcuna” del nostro prossimo, al Salmo 37, passando per i libri sapienziali – dove l’invidioso è colui che, privo di Sapienza e riconoscibile perfino dallo sguardo, “non cessa di rodersi”; è colui che “se lo fai sedere accanto a te, cercherà di occupare la tua poltrona” -, il testo sacro del cristianesimo abbonda di riferimenti a quello che Sant’Agostino considera come il “peccato diabolico per eccellenza”.
A riprova della pericolosità di un moto dell’animo strisciante e corrosivo, anche la poesia, la letteratura e perfino le fiabe sono larghe di moniti e richiami inerenti l’invidia. Si pensi, ad esempio, all’episodio di Pier della Vigna – cancelliere e ministro di Federico II, indotto al suicidio da quella che il Poeta definisce come la meretrice da “li occhi putti, / morte comune e de le corti vizio”, l’invidia appunto -, narrato da Dante nel Canto XIII dell’Inferno (vv. 55-78). Ma si pensi pure, semplicemente, alla strega malvagia che perseguita la povera orfanella Biancaneve nel desiderio di distruggere quella bellezza che non riesce ad avere.
Nonostante i molteplici e convincenti ammonimenti che ne colgono la potenza distruttiva, l’invidia resta un sentimento profondamente radicato nella natura umana, un’emozione primitiva e diffusissima, benché non sempre immediatamente riconoscibile. “Niente è altrettanto implacabile e spietato dell’invidia – scriveva Schopenhauer -, eppure siamo costantemente impegnati a suscitarla con tutte le nostre forze”. Allora come oggi. E una volta “suscitata” essa incide significativamente nei vari tipi di rapporti sociali, dalle relazioni affettive – compresa l’amicizia – a quelle lavorative, dalle relazioni di vicinato a quelle politiche.
Gli effetti dell’invidia, troppo spesso sottovalutati, sono sempre negativi, talvolta perfino irreparabili e nefasti. La prostituta dagli “occhi putti”, la “fiera pessima che rode la bellezza di tutte le virtudi” – come la definiva ancora Sant’Agostino – è stata evocata, ad esempio, nell’ambito del processo per la morte di Sarah Scazzi in corso a Taranto: secondo l’accusa – che ha ribadito questa posizione anche nei giorni scorsi – all’origine dell’omicidio della quindicenne di Avetrana ci sarebbero proprio la gelosia (della cugina Sabrina per l’amico Ivano) e l’invidia (di Sabrina verso l’esile e graziosa Sarah), un’invidia profonda. Altre volte questo sentimento così distruttivo è all’origine di atti di bullismo – il bullo infierisce di preferenza sui “belli e bravi” -, di certe forme di stalking, di liti fra condomini, di famiglie dilaniate, di divisioni politiche (a partire da un certo anti berlusconismo che guarda con cattivo occhio più alla ricchezza dell’imprenditore che alla figura dell’uomo politico, fino ai recenti dissapori tra Berlusconi e Alfano, che, secondo Pierluigi Battista, potrebbero celare un po’ di quell’invidia presente “anche nelle migliori famiglie”).
Altre volte ancora subentra quella manifestazione di meschinità che Francesco Bacone definiva come l’“invidia del re”: non la più comune invidia che va dal basso verso l’alto – quella, ad esempio, del povero verso il ricco -, ma l’invidia di chi ha una posizione – sociale, lavorativa, economica – di grande vantaggio, ma teme, anche senza un reale motivo, di perderla, e per questo cerca di tutelare il proprio status da ogni possibile minaccia (è il caso del professore che teme l’ascesa dello studente, del dirigente che ha paura della scalata del dipendente, e così via).
Benché non se ne parli più come in passato, l’invidia resta una passione umana ineliminabile i cui danni sono spesso sottovalutati. Anche solo pensare di arginarla è un’impresa ardua. L’unico accorgimento possibile è, forse, ricordarne gli effetti deleteri – prodotti in ogni epoca, dagli albori dell’umanità fino ad oggi -, la vacuità e l’inutilità: “Dopo aver pensato a quanti ti precedono – scrive Seneca rivolgendosi all’invidioso (Lettere a Lucilio, II, 15, 10) – considera quanti ti seguono”.

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